In attuazione del Decreto Legge n. 6/2020, il DPCM 22 marzo 2020, il DPCM 10 aprile 2020 e da ultimo il DPCM 26 aprile 2020 hanno, come noto, disposto la sospensione di numerose attività  produttive  industriali  e commerciali.

Ai provvedimenti del Governo si affiancano numerosi provvedimenti urgenti adottati dalle Regioni che, a vario titolo, intervengono sulla medesima materia, talvolta sovrapponendosi ai Decreti governativi, creando non pochi problemi di coordinamento.

Al netto di singole previsioni regionali (o comunali), la regola generale della sospensione, desumibile dall’art. 1 comma 1 lett. a) del DPCM 22 marzo 2020 sostituito dall’art. 2 DPCM 10 aprile 2020 e poi – a far data dal prossimo 4 maggio – dall’art. 2 DPCM 26 aprile 2020, non si applica (con conseguente facoltà di continuare l’attività produttiva) ad una serie rilevante di casi, tra cui, per quanto qui interessa:

– alle attività indicate, fino al 3 maggio prossimo, nell’allegato 3 al DPCM 10 aprile 2020 (art. 2 comma 1) e, a partire dal 4 maggio, nell’allegato 3 al DPCM 26 aprile 2020 (art. 2 comma 1);

– alle attività che erogano servizi  di pubblica utilità, nonché servizi essenziali di cui  alla  legge  12 giugno 1990, n. 146 (art. 2 comma 4 DPCM 10 aprile 2020 e art. 2 comma 3 DPCM 26 aprile 2020);

– alle attività di produzione, trasporto, commercializzazione e consegna di farmaci, tecnologia sanitaria e dispositivi medico-chirurgici nonché di prodotti agricoli e alimentari e ogni attività comunque funzionale a fronteggiare l’emergenza (art. 2 comma 5 DPCM 10 aprile 2020 e art. 2 comma 4 DPCM 26 aprile 2020);

– le attività degli impianti a ciclo produttivo continuo, previa comunicazione al Prefetto (art. 2 comma 6 DPCM 10 aprile 2020), ma solo fino al 3 maggio come si dirà di seguito.

 

Da notare come il DPCM 26 aprile 2020 abbia ampliato l’elenco delle attività consentite ma, allo stesso tempo, abbia espunto la regola vigente nei previgenti decreti (art. 2, comma 3 del DPCM 10 aprile 2020) secondo cui si potevano ritenere consentite, previa comunicazione al Prefetto, anche le attività produttive funzionali ad assicurare la continuità delle filiere delle attività espressamente ammesse, nonché dei servizi di pubblica utilità e dei servizi essenziali. Le sole attività di filiera attualmente ammesse sono infatti quelle che forniscono beni e servizi per le attività del settore agricolo, zootecnico e di trasformazione agro-alimentare nonché per i  servizi  bancari,  finanziari,   assicurativi (art. 1, lett. ee, del DPCM 26 aprile 2020).

Scompare altresì nell’ultimo DPCM la deroga per le attività degli impianti a ciclo produttivo continuo che, sempre previa comunicazione al Prefetto, erano consentite nei precedenti decreti.

L’indicato quadro regolatorio emergenziale ha indubbie ricadute sull’esecuzione dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture.

Anzitutto il DPCM 26 aprile 2020 (come del resto anche i precedenti DPCM) sospende indubbiamente le attività produttive, ma non sospende direttamente i contratti pubblici stipulati dagli operatori economici che svolgono tali attività.

La sospensione temporanea dell’esecuzione del singolo contratto è dunque rimessa alle diverse Stazioni Appaltanti, tramite i direttori dei lavori o i direttori di esecuzione unitamente ai responsabili del procedimento.

La sospensione trova disciplina nell’art. 107 D.Lgs. 50/2016 applicabile anche ai servizi ed alle forniture. Essa può essere disposta “per il tempo strettamente necessario” (comma 3), attraverso tre diverse modalità:

– integralmente, per “circostanze speciali che impediscono in via temporanea che i lavori procedano utilmente a regola d’arte, e che non siano prevedibili al momento della stipulazione del contratto”(comma 1);

– sempre integralmente, “per ragioni di necessità o di pubblico interesse” (comma 2);

– parzialmente, ossia limitatamente a certe prestazioni, “per cause imprevedibili o di forza maggiore” che “impediscano parzialmente il regolare svolgimento dei lavori” (comma 4).

 

La sospensione imposta alle attività produttive integra potenzialmente i presupposti di tutte e tre le fattispecie sospensive. La scelta dello strumento dipenderà quindi dalle caratteristiche e dal contenuto del contratto. Se quindi le prestazioni oggetto del contratto non siano eseguibili integramente per la sospensione dell’attività produttiva, il meccanismo più idoneo sarà la sospensione integrale con durata agganciata all’efficacia della misura di contenimento introdotta dal DPCM 22.3.2020 e successivamente prorogata dapprima fino al 3.5.2020 con il DPCM 10.4.2020 e  adesso ulteriormente prorogata, sia pure con modifiche, sino al 17.5.2020 con il DPCM 26.4.2020 che comunque esplica efficacia (salve le disposizioni di cui all’art. 2 commi 7, 9 ed 11) a decorrere dal 4.5.2020, giusta quanto previsto dall’art. 10 del medesimo Decreto.

La sospensione dell’esecuzione del contratto in caso di sospensione dell’attività costituisce uno strumento di garanzia per l’appaltatore poiché, in assenza di un meccanismo sospensivo, continuerebbero a prodursi gli effetti del contratto e con essi tutti gli obblighi contrattuali.

Va comunque detto che l’art. 91 del D.L. n. 18/2020 (c.d. “Cura Italia”), prevede espressamente che il rispetto delle misure di contenimento (ivi compresa la sospensione dell’attività) è valutato, ai sensi dell’art. 1218 cc, ai fini dell’esclusione della “responsabilità del debitore”. Pertanto, anche in assenza di sospensione, l’appaltatore ben potrebbe invocare l’art. 1218 cc nonché l’art. 1256 comma 2 cc per escludere la propria responsabilità.

La sospensione, tuttavia, “congela” gli effetti del contratto e per questo rappresenta lo strumento più sicuro ed idoneo a neutralizzare sul nascere  eventuali contrasti tra le parti e per mettersi al riparo da qualsiasi contestazione.

 

Diversa è la situazione per i contratti aventi ad oggetto:

(i) un servizio pubblico essenziale;

(ii) un servizio, un lavoro o una fornitura che consista nello svolgimento di un’attività produttiva non sospesa;

 

Nel caso sub (i) appare difficile configurare una ipotesi di sospensione del contratto in ragione della natura essenziale del servizio erogato la cui concreta fruizione da parte degli utenti rappresenta una necessità che trascende le singole dinamiche contrattuali.

Nelle ipotesi sub (ii) invece, la sospensione è astrattamente possibile e l’opportunità è rimessa ad una decisione discrezionale della Stazione Appaltante.

Una simile decisione, purché motivata ed effettuata secondo le modalità previste dall’art. 107 Dlgs 50/2016, appare difficilmente censurabile, dal momento che, come detto, l’adozione delle misure di contenimento integra i presupposti delle fattispecie sospensive di cui art. 107 commi 1, 2, e 4.

Occorre tuttavia precisare che a mente dell’art. 107 comma 2, D.Lgs. 50/2016, qualora la sospensione si protragga per oltre ¼ del periodo contrattuale o comunque in misura superiore a 6 mesi, l’appaltatore ha diritto alla risoluzione del contratto, sia pure senza indennità.

Non si comprende se la facoltà sia prevista solo per la fattispecie sospensiva di cui al comma 2 o detti una regola generale applicabile a tutti i meccanismi di sospensione; l’ANAC, nelle Linee Guida sulle attività del direttore dei lavori, sembrerebbe optare per la seconda soluzione: “Qualora la sospensione o le sospensioni durino per un periodo di tempo superiore ad un quarto della durata complessiva prevista per l’esecuzione dei lavori o, comunque, quando superino sei mesi complessivi, si applica quanto disposto dall’art. 107, comma 2, del Codice” (cosí punto 7.4.2.1. delle linee guida).

Infine, in relazione ai contratti aventi ad oggetto servizi essenziali può darsi il caso che, in virtù della contingenza emergenziale, le singole Stazioni Appaltanti siano portate a ridurre le prestazioni contrattuali con contestuale riduzione del corrispettivo.

Una simile eventualità può trovare una base giuridica nell’art. 106 comma 12 del D.Lgs. 50/2016, a mente del quale “La stazione appaltante, qualora in corso di esecuzione si renda necessario un aumento o una diminuzione  delle  prestazioni  fino  a concorrenza del  quinto  dell’importo  del  contratto,  può  imporre all’appaltatore l’esecuzione  alle  stesse  condizioni  previste  nel contratto originario. In tal caso l’appaltatore non può far valere il diritto alla risoluzione del contratto”.

Tale disposizione è tuttavia destinata a trovare applicazione nelle sole ipotesi in cui la variazione (in aumento o diminuzione) rientri nel c.d. “quinto d’obbligo” ossia non sia superiore (o inferiore) al quinto dell’importo del contratto.

Per le modifiche di importi superiori, le variazioni in diminuzione, sono consentite nei limiti di quanto previsto dallo stesso art. 106 comma 1, lett. a)-e) D.Lgs. 50/2016, che elenca i casi tassativi in cui è  consentita una modifica delle condizioni contrattuali in corso di  esecuzione.

Escludendo le ipotesi espressamente dedicate alle varianti in aumento (oggetto di maggiore attenzione, visti i possibili impatti concorrenziali) potrebbe in astratto trovare applicazione l’art. 106 comma 1 , lett. c) D.Lgs. 50/2016 che consente la modifica contrattuale alla duplice condizione che essa:

(a) si sia resa necessaria in conseguenza di circostanze impreviste e imprevedibili per la stazione appaltante, quali “la  sopravvenienza  di nuove disposizioni legislative o  regolamentari  o  provvedimenti  di autorità od enti preposti alla tutela di interessi rilevanti”;

(b) non alteri la natura generale del contratto.

 

Ci si può domandare se una simile imposizione possa giustificare la risoluzione del contratto da parte dell’esecutore. La facoltà di risoluzione potrebbe desumersi a contrariis dal comma 12 dell’art. 106 D.lgs. 50/2016 in relazione alle modifiche che eccedono il quinto d’obbligo, ma l’articolato normativo non pare chiaro sul punto. Sarà quindi indispensabile un chiarimento giurisprudenziale.

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